18 dicembre 2015

Il cacao, come il caffè, lo zucchero, il tè, sono ancor oggi chiamati in Borsa “beni coloniali” e, anche se ci sembra un nome un po’ bizzarro e anacronistico, ora che di colonie non ne esistono più (?…), non dovremmo mai dimenticarcelo.

Il significato del termine è molto tosto!

Ci ricorda che la produzione di questi beni, che avviene nella fascia tropicale, è sempre stata determinata dagli interessi delle potenze coloniali, oggi potremo dire dei Paesi più ricchi e delle multinazionali che ne controllano il mercato e la trasformazione.

È vero a tal punto che ancora oggi se andate in Africa, anche in zone di coltivazione di cacao, quasi nessuno di quelli che incontrate ha avuto il piacere di mangiare il cioccolato e di sapere che la lucida tavoletta viene proprio da quei semi di cui loro coltivano i frutti e fanno essicare i semi, come abbiamo toccato con mano anche durante il progetto Fisic.

“Prodotto coloniale” significa un prodotto che viene tutto e solo esportato, totalmente alienato dalla gente che lo produce e a cui è stato imposto a un certo punto di produrlo per motivi che sono fuori dal loro controllo e a volte sono anche in contrasto con i loro interessi: a volte per esempio, per coltivare beni da esportazione non riescono a coltivare beni di consumo primario, come cereali, miglio, riso, mais per dar da mangiare alla propria famiglia…

Il cacao è originario del Centro America, ma appena gli Spagnoli alla fine del XV secolo raggiunsero le Antille, lo incontrarono e ne diventarono grandi consumatori.

Dopo la Conquista delle terre di Montezuma (l’attuale Messico), iniziarono (nel 1535) a mandare il cacao in Spagna, e presto non bastarono più le fave di cacao coltivate dai contadini locali che peraltro avevano sterminato in grande quantità e quindi non potevano più coltivare.

Gli Spagnoli allora sperimentarono il sistema delle ecomiendas prima di tutto nelle isole Antille (quelle “scoperte” da Cristoforo Colombo): si trattava di grandi piantagioni ottenute rubando la terra agli indigeni che nelle Antille furono tutti massacrati nel giro di pochi decenni e assegnandola ad avventurieri spagnoli che iniziarono a importare schiavi dall’Africa per sostituire la manodopera locale che non esisteva più.

Le Antille così furono il primo territorio a diventare colonia produttrice di cacao, grazie allo sterminio dei suoi abitanti e al rimpiazzo di migliaia di schiavi africani. Questo sistema fu esteso a tutta l’America Latina con piantagioni diverse a seconda di quello che conveniva produrre.

Il Brasile invaso dai Portoghesi fu il secondo territorio dove la coltura del cacao fu estesa dal XVII secolo per procurare cacao da esportare in Europa.

Nel XIX secolo le potenze coloniali emergenti che sostituirono Spagna e Portogallo furono Francia e Inghilterra le cui colonie erano soprattutto in Africa. Per questo la produzione di cacao si spostò nell’Africa Occidentale e ancor oggi i principali produttori mondiali di cacao sono Costa d’Avorio (ex colonia francese) e il Ghana (ex colonia inglese) che così si assicurarono l’approvvigionamento di questi beni ormai indispensabili per i pochi consumatori ricchi dei loro Paesi.

È negli anni ’80 del XX secolo che l’Asia si affaccia. Non ci sono più potenze coloniali, ma ci sono ancora meccanismi economici che impongono ai Paesi meno forti economicamente le loro regole attraverso soggetti come Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale che, per costringere i Paesi poveri a ripagare i debiti esorbitanti contratti nei decenni precedenti proprio su consiglio delle stesse banche, li “invitano” ad aumentare le coltivazioni di beni da esportazione (a scapito dei beni di sussistenza) per poter ottenere dollari sul mercato internazionale da usare per ripagare i debiti.

Peccato che estendendo questo “consiglio” a tanti Paesi, il risultato fu una quantità enorme di beni messa sul mercato che portò al crollo dei prezzi delle materie prime agricole, che servirono ben poco a ripagare il debito estero… Però oggi Indonesia e Malesia sono fra i principali produttori di cacao, a scapito anche di milioni di metri quadrati di foreste tagliate.

Meglio astenersi da commenti sull’acume degli economisti di Banca Mondiale e Fondo Monetario o su eventuali similitudini con la crisi del debito che attraversiamo oggi in Europa (Grecia, Italia, Francia, Belgio, Germania…). Beni da depredare, come abbiamo fatto per secoli nel mondo, ne abbiamo anche noi.